La commistione tra politica e Festival ha radici lontanissime. È il caso di Papaveri e papere, usata nei manifesti dei principali partiti per le elezioni amministrative del 1952
Anche quest’anno la tradizione per molte famiglie italiane si sta ripetendo, e quasi la metà degli italiani che decidono di accendere la TV, lo fa sintonizzandosi su Rai 1 per seguire il Festival di Sanremo.
Quest’anno il Festival è arrivato alla 69esima edizione, ma non sempre questa kermesse si è svolta come la vediamo noi oggi. Ad esempio, le prime edizioni del Festival erano trasmesse solo via radio dal salone delle feste del casinò di Sanremo, per tentare di dare nuova linfa sia alla musica nazional-popolare italiana, sia al casinò stesso, che in quegli anni non si trovava in buone condizioni economiche.
Durante la seconda edizione del Festival, quella del 1952, arriva seconda una canzone destinata a diventare famosissima: Papaveri e papere, scritta da Mario Panzeri, Nino Rastelli e Vittorio Mascheroni.
La canzone è poco più che una filastrocca musicata e cantata nell’occasione da Nilla Pizzi (un’altra cosa cambiata nel tempo: una volta tutte le canzoni in gara erano interpretati da pochi cantanti che si davano il cambio).
Papaveri e papere ebbe talmente tanto successo che, oltre a diventare un film lo stesso anno, con le interpretazioni di Walter Chiari e Franca Rame, divenne anche uno strumento per fare propaganda politica, considerata l’orecchiabilità del pezzo che si era facilmente inserito nelle teste degli italiani.
Il primo partito a produrre manifesti che alludevano al pezzo fu la Democrazia Cristiana, che rappresentò una mano (che indicava il voto), con una forbice in mano, nell’atto di tagliare dei papaveri. La parte testuale del manifesto reca la frase: “Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti – dagli ‘na tagliatina, dagli ‘na tagliatina”, con chiara allusione alla solita minaccia comunista che incombeva nelle elezioni amministrative fissate il 25 maggio di quell’anno (si votava anche a Roma).
Subito il PCI ribatté utilizzando lo stesso manifesto, ma aggiungendo le teste dei maggiori esponenti democristiani dell’epoca come De Gasperi e Scelba che uscivano dai fiori rossi, e la frase “dagli ’na tagliatina, vota Lista Cittadina”.
Persino i monarchici utilizzarono la canzone, parafrasandone il testo: “Ma per stella e corona son tanti, tanti, tanti, il re così ritorna, il re così ritorna, lo sai che i monarchici son tanti, tanti, tanti, il 25 maggio il voto lo dirà”.
Sbagliamo però se pensiamo che questa sia la prima volta che una canzone così popolare viene utilizzata per fare propaganda politica.
Le canzoni di Mario Panzeri, infatti, da tempo erano utilizzate per fare satira, quando non servirono addirittura per prendere in giro il regime fascista durante il Ventennio. Come quella volta che nottetempo, a Livorno, ignoti scrissero sul basamento del monumento che si stava costruendo in onore del gerarca fascista Costanzo Ciano alcuni versi della canzone Maramao perché sei morto, altro grande successo di Panzeri. Il paroliere negò sempre la sua volontà di mettere alla berlina il fascismo (e la politica), ma un’altra canzone, Il tamburo della banda d’Affori, quando dice “tamburo principale della banda d’Affori, che comanda 550 pifferi” sembra sembra proprio richiamare i 550 componenti della Camera dei fasci e delle corporazioni…
E quindi anche Papaveri e papere deve essere letta come una vibrante critica nei confronti dei potenti, gli alti papaveri, in contrapposizione con i paperi, il popolo. Soprattutto dal momento che questa lettura è stata confermata dall’interprete Nilla Pizzi e, soprattutto, dallo stesso Panzeri.
La metafora dei papaveri applicati alla politica ha origini molto lontane e arriva dallo scrittore e storico latino Tito Livio che nella sua Storia di Roma racconta che Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma, per far capire al figlio il modo per prendere il potere, inizia a “passeggiare avanti e indietro in silenzio, decapitando i papaveri più alti a colpi di bacchetta”. Il figlio comprese il messaggio del padre e iniziò a esiliare e uccidere gli alti papaveri, giungendo ben presto al potere.
Del resto, negli ultimi anni siamo stati sempre abituati ad associare il festival di Sanremo alla politica. Quest’anno è toccato a Claudio Baglioni e, più indirettamente, a Claudio Bisio di parlare della questione migranti in conferenza stampa, attirandosi gli strali di Matteo Salvini e della compagine governativa.
Ma altri momenti del genere sono indimenticabili, come Sanremo 2016 quando praticamente tutti gli artisti e i conduttori indossarono il braccialetto arcobaleno per promuovere le unioni civili, o come quella volta che il pubblico adirato contestò l’imitazione di Silvio Berlusconi messa in scena da Maurizio Crozza (era il 2013), le varie comparsate di Roberto Benigni, la canzone “Cancella il debito” di Jovanotti nel 2000, e così via.
Insomma, probabilmente Sanremo è l’evento per eccellenza per far mescolare insieme i vasi già comunicanti di pop e politica, vuoi per la tensione mediatica che si accumula nei giorni precedenti e successivi, vuoi per i dieci milioni di italiani incollati per quattro sere di fila alle televisioni, vuoi perché Sanremo è Sanremo.
(A cura di Giovanni Pigatto)
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